Ivano Rampa: «È l’armonia il segreto di Poschiavo»

Ha contribuito a mantenere integro il patrimonio architettonico della Valle, a valorizzarlo e a proteggerlo: 59 gli edifici storici solo a Poschiavo a cui ha messo mano. Chi meglio di lui può illustrarci i motivi per cui il Comune di Poschiavo merita il Premio Wakker.
20.08.2025
11 min
Un uomo sta pitturando una parete con dettagli ornamentali in un ambiente decorato. Indossa una camicia a righe e sorride mentre lavora.

Anche se per modestia fatica ad ammetterlo, Ivano Rampa appartiene a quel ristretto novero di persone che, con il proprio lavoro, ha contribuito in maniera rilevante non solo a mantenere integro il patrimonio architettonico della nostra Valle, bensì a valorizzarlo e a proteggerlo. Chi meglio di lui, dunque, poteva illustrarci i motivi per cui il Comune di Poschiavo merita il Premio Wakker.

Ivano Rampa, tu sei nato e cresciuto in Valposchiavo a Miralago, proprio sul confine tra i due Comuni, per gli amanti della precisione. Poi, com’è accaduto e accade ancora a tanti nostri giovani convalligiani, hai lasciato la tua terra per formarti professionalmente. Vuoi per amore, vuoi per impegni professionali, vuoi per una scelta ben precisa o per tutte e tre le ragioni, hai deciso che la tua vita si doveva svolgere lontano dalla tua Valle. Non sei però riuscito a recidere completamente il cordone ombelicale che ti legava, e ti lega tuttora, alla tua terra natìa e, ancora oggi, vanti numerosi legami che ti attirano a sud delle Alpi. Come spieghi questa particolare dicotomia comune a parecchi valposchiavini fuori Valle?

Sono cresciuto con la certezza che un giorno me ne sarei andato. Non appartengo a quel gruppo di persone, come per altro lo era mio fratello, che volevano e vogliono trascorrere tutta la loro vita tra questi nostri splendidi paesaggi. Sapevo che la mia vita era altrove, ma ero anche cosciente che queste nostre montagne erano profondamente radicate in me. Sono molto legato alla Valposchiavo e a tutti quegli amici con i quali, da giovane, ho avuto modo di scoprire il nostro territorio. Pur aspirando al distacco, sentivo che dentro di me il legame culturale – inteso nel suo spettro più ampio – con la Valposchiavo era sempre più solido. Poi il resto lo ha fatto la vita.

Una spinta a rendere concreto questo particolare legame con la Valposchiavo te l’ha fornita la tua scelta professionale. Da bambino aspiravi già a divenire, un giorno, restauratore?

Al contrario, nei miei sogni aspiravo a diventare meccanico di aerei prima e maestro di ginnastica dopo. Ho sempre amato in maniera viscerale lo sport, ma purtroppo quando si è trattato di concretizzare questa mia aspirazione, ho dovuto fare i conti con problemi fisici che mi hanno impedito di continuare. Perciò ho pensato che avrei potuto ripiegare sull’attività di maestro di disegno. Dopo aver superato l’esame di ammissione per la scuola di belle arti a Basilea, mi è stato detto che, prima di affrontare quattro anni di formazione, avrei dovuto svolgere un anno cuscinetto. Mi sono rifiutato categoricamente: quattro anni lontano dalle mie montagne avrei potuti affrontarli, ma non cinque. Così, quasi per caso, dopo uno stage orientatore in Ticino sono finito in bottega da un restauratore grigionese.

E con lui hai assolto la tua formazione.

Non proprio, visto che allora non esisteva nessuna formazione riconosciuta per diventare restauratore. Così sono rimasto d’accordo che avrei lavorato con lui per un anno e poi mi sarei trasferito in Italia per ampliare le mie conoscenze. Dopo aver cercato un istituto formativo in lungo e in largo per tutta la penisola italica, di comune accordo con il mio datore di lavoro e sotto la sua influenza, mi sono convinto che la strada migliore da percorrere era quella di rimanere in bottega con lui e ampliare le mie conoscenze con corsi formativi puntuali. A questa persona devo un immenso ringraziamento e le rimango ancora oggi legato da un’amicizia e stima sincera.

E come è iniziato il tuo rapporto professionale con la Valposchiavo, o meglio, le valli del Grigionitaliano?

Per ovvi motivi, quando c’era da svolgere un lavoro nel Grigionitaliano, la scelta cadeva inevitabilmente su di me. In questa maniera ho potuto iniziare a conoscere il nostro patrimonio architettonico. Sono riconoscente a tante persone delle nostre valli, in quanto i primi approcci non sono stati semplici per me. Le persone si chiedevano se fossi capace e io respiravo un po’ di comprensibile scetticismo nei miei confronti. Per fortuna, col passare degli anni, diversi architetti, artigiani e anche committenti hanno dimostrato coraggio e mi hanno offerto un’opportunità. Peraltro, erano anche tempi in cui, quantomeno in Valposchiavo, l’Ufficio per i monumenti storici non godeva di grande rispetto, in particolare, dopo un assai aspro diverbio nato a seguito dei lavori di restauro esterni della chiesa San Vittore Mauro del 1975. Col tempo, siamo riusciti sia noi, sia l’ufficio citato a riguadagnare il rispetto della popolazione e degli addetti ai lavori, tanto che adesso sono loro a chiamarci per illustrarci quanto vogliono o hanno fatto. C’è grande fierezza per il nostro patrimonio architettonico.

Per me, questo cambiamento ha anche significato maggiori responsabilità – che ho assunto con grande entusiasmo – e una determinata notorietà, che per certi versi non rientrava nel mio carattere. Ho dovuto prendere una certa distanza e l’ho fatto nel modo che mi è stato più congeniale: scindendo la vita privata da quella professionale, ovvero ho scelto di vivere lontano dalla mia Valle. Inoltre, con l’atelier ad Almens in Domigliasca mi sono stabilito al centro del Cantone e questo mi facilita parecchio la gestione dei numerosi cantieri. In privato sono domiciliato a Madulain, noto come uno dei paesi svizzeri più belli e in mezzo alle mie amate montagne.

«La Società svizzera per il patrimonio onora Poschiavo con il Premio Wakker 2025, come modello di successo per la combinazione di tradizione, progresso e spirito comunitario» – questa la motivazione espressa dalla giuria. Riconosci Poschiavo in queste parole?

Certo, lo riconosco. Come profondo amante dell’architettura e relativi patrimoni, ho girato tanto alla scoperta di altre località che avevano già vinto questo encomio e mi sono sempre chiesto quando sarebbe toccato a Poschiavo. Non avevo dubbi che lo meritasse. Conoscendo la nostra realtà, posso affermare che la nostra regione si sia spinta oltre tutte le altre, sviluppando anche strategie che si accompagnano a quelle di preservazione e valorizzazione dei propri beni di interesse architettonico. Penso al Progetto 100% Bio Valposchiavo che è qualcosa di incredibile e che gode di ampio successo oltre i nostri confini. Così facendo, stiamo dimostrando uno spirito comunitario invidiabile.

Tutto ciò è accostato a una strategia di conservazione e valorizzazione del nostro patrimonio architettonico, iniziata a cavallo degli anni 2000, quando si è data una struttura e una visione a quello che doveva essere il borgo di Poschiavo. In quegli anni abbiamo compreso che, per compiere un lavoro accurato, non dovevamo solamente tornare alle origini degli immobili, bensì andavano valorizzati anche gli interventi artistici realizzati nel tempo. Così facendo, abbiamo cercato di dare un’identità a Poschiavo e, grazie alla collaborazione con architetti, artigiani e committenti pubblici e privati, siamo riusciti a sviluppare un concetto ben definito che ha portato al risultato che oggi conosciamo. Un concetto che si basa non sull’intera storia della Piazza, bensì si fonda sull’aspetto che riteniamo avesse negli anni intorno al 1850, quando gli immobili circostanti subirono il loro ultimo grande ampliamento. Ovviamente abbiamo valorizzato anche tutti i particolari storici antecedenti, ma sempre con un obiettivo ben presente. Sempre coscienti e con abbondante rispetto verso l’esistente consapevoli che “nel dettaglio sta l’insieme”.

Tu hai sempre avuto modo di valutare, in maniera anche puntuale, lo stato di conservazione del nostro patrimonio architettonico. Come lo giudichi in generale oggi?

Fino ad oggi esemplare. Si è sempre cercato di mantenere integro ciò che le generazioni prima di noi hanno realizzato, anche nella scelta dei prodotti usati. Purtroppo, s’inizia a intravvedere una devianza che potrebbe mettere a repentaglio tutto ciò. Se è vero che ancora oggi, alle nostre latitudini, non manchino le maestranze preparate, ciò che mi preoccupa è l’utilizzo di materiali che non sono più compatibili con quelli originali. La legislazione svizzera in questo ambito ci è d’intralcio e, così, la calce o i colori ad olio di adesso non sono nemmeno lontani parenti di quella di una volta. Un occhio allenato riconosce subito la differenza.

Ritieni che pubblico e privato s’impegnino a sufficienza nel tentativo non solo di conservare ma anche di valorizzare questo patrimonio?

Il pubblico senz’altro e lo dimostrano gli ultimi interventi eseguiti con grande rispetto e sostenuta professionalità. Per quanto riguarda il privato, vi sono due grandi filoni: coloro che vogliono mantenere integro il patrimonio architettonico ad ogni costo e coloro che, al contrario, non vi pongono alcun valore. Il compito mio e dell’Ufficio per i monumenti è di cercare di sensibilizzare questi ultimi sull’importanza del mantenere determinate caratteristiche, così da mantenere integro anche il valore dell’immobile nonché dell’intero quartiere o borgo.

Cosa significa conservare un patrimonio architettonico? Mi spiego meglio: conservare le particolarità di un edificio non si scontra con le necessità dell’abitare moderno nella quotidianità?

Non bisogna sempre arrivare agli estremi. Se a una casa storica si vogliono applicare tutti i comfort moderni, non si riesce più a percepire il valore del vissuto. Gli architetti hanno grande influsso e responsabilità nel riuscire a mantenere un certo equilibrio. È una bella sfida e un opportuno rispetto per l’esistente rappresenta una buona base. Ovviamente, il tutto è più semplice se il committente è partecipe. Abitare nel borgo significa anche percepirne lo spirito. Chi possiede tale genere di abitazione è spesso orgoglioso che essa sia costruita, quasi esclusivamente, con materiali provenienti dalla Valle. Certo, ciò presuppone che ce lo si possa permettere anche dal lato finanziario. All’altro estremo troviamo degli esempi dove non ci sono ricchezze e la conservazione dell’esistente è d’obbligo. Uno dei migliori esempi a livello cantonale e federale lo rappresenta la casa Tomè.

Dove ritieni abbiamo ancora margine di miglioramento?

Nel campo del restauro architettonico, dobbiamo imparare a mettere al centro l’oggetto e non la persona. Io, come essere vivente, sono di passaggio; l’edificio durerà parecchio dopo di me. A volte, mi piace immaginare di essere nel 2050 e di voltarmi indietro e guardare ciò che abbiamo fatto. «Posso dire di andarne fiero?» È questa la domanda che mi pongo. E molte volte scuoto la testa nel giudicare altri progetti in corso.

Oggi abbiamo spesso la prepotenza di fare tutto in maniera veloce. Ma la nostra maestra dovrebbe essere la natura con i suoi tempi, i suoi colori, la sua armonia. Per me, stiamo imboccando una strada sbagliata. Basta guardare a come, a volte, si tracciano i nuovi sentieri: con mezzi sempre più performanti abbattiamo tutto, mentre una volta seguivamo le ondulazioni e le deviazioni imposteci dalla natura. Con piacere, ho visto il lavoro svolto sui nostri sentieri storici e di come le loro caratteristiche siano state mantenute. È un ottimo segnale, è la dimostrazione che si può avere rispetto per il proprio patrimonio. Partire da una visione storica per costruire il futuro.

Come detto, fra pochi giorni il Comune di Poschiavo riceverà ufficialmente il Premio Wakker 2025. Tra gli addetti ai lavori, che valore si riconosce a questo encomio?

Se giro per Poschiavo ciò che il mio occhio allenato nota è una grande armonia. Consiglio sempre ai miei colleghi di venire in Valle e fare un giro per il borgo. È qualcosa di indescrivibile ammirare tanta armonia in ogni singolo dettaglio, che siano i colori, le finestre, le persiane, i tetti o altro. A Poschiavo non c’è nulla che si possa definire un obbrobrio. Il Wakker è un riconoscimento all’identità del paese. Se faccio un confronto con Guarda – pure vincitore di un Wakker (1975) – noto che nel complesso il villaggio è ancora bello, ma iniziano a spuntare delle macchie. Fra l’altro non solo di tipo cromatico o materialistico ma dovute anche alle abitazioni secondarie che influiscono di non poco sull’identità e sulla vita quotidiana di un paese di montagna. A Poschiavo non vi è nulla di tutto ciò. Dobbiamo stare attenti a non commettere gli stessi errori. Sarebbe deleterio farci contagiare dalla voglia di efficientare la produzione di energia elettrica installando pannelli solari sui tetti /facciate del borgo. Bisogna evitarlo, così come sono da evitare finestre in plastica, isolazioni esterne, persiane in alluminio e via di seguito. Inoltre, la questione delle abitazioni secondarie non si ferma davanti al premio Wakker, anzi queste possono diventare addirittura più attrattive. In questo senso anche la più lungimirante e ottima pianificazione non funge da garanzia per un futuro di rispetto. Non infesciamoci da soli la nostra identità.