Il reportage che abbiamo realizzato documenta le percezioni e le riflessioni di quattro studenti durante questa esperienza.
Siamo partiti in venti da Zurigo, in cerca di qualcosa che non si lascia misurare facilmente: i valori, le relazioni e le tensioni che danno forma a questa valle.
Conoscevamo grafici, presentazioni e il marchio 100% Valposchiavo dalle aule della Universitätsstrasse a Zurigo, ma tutto questo sembrava improvvisamente lontano quando, con gli zaini sulle spalle, abbiamo attraversato il Poschiavino.
Quando il crepuscolo ha inghiottito l’arancione dei larici e le luci calde delle finestre si sono accese tra i vicoli, è emerso con maggiore evidenza che le evidenze più significative non risiedono nei dati quantitativi, ma nelle interazioni dirette: negli incontri, nelle conversazioni, negli sguardi.
Nelle persone che qui vivono e che, giorno dopo giorno, contribuiscono in modo concreto alla costruzione sociale, economica e culturale della valle.
La mattina seguente, nell’aria limpida e fredda sotto un cielo che prometteva sole, avevamo appuntamento alla scuola professionale di Poschiavo con Thomas Fries, il direttore del turismo della Valposchiavo. È arrivato in bicicletta e ci ha accolto con una sincerità quasi disarmante. Ha parlato di autenticità, di relazioni invece che di quantità, di una valle che non vuole brillare ma agire. Dalle sue parole trasparivano orgoglio e, allo stesso tempo, la fatica di mediare tra tradizione, aspettative e futuro.
Saremmo rimasti ancora a lungo a parlare con Thomas Fries, ma il nostro programma ci portava già verso il prossimo incontro, a San Carlo.
A San Carlo abbiamo incontrato Emanuele Bontognali, un medico in pensione, che ci ha mostrato con occhi luminosi come il Mulino Aino stia tornando a vivere: la farina di grano saraceno che danza nell’aria come una polvere fine, le vecchie cinghie che si muovono come un respiro regolare. Accanto, Giovanni ci ha guidati attraverso il Kulturspeicher, dove vecchi attrezzi e coperte poschiavine raccontano una valle tenuta insieme non soltanto dalle storie, ma dalle mani.
Sul piazzale del Centro di conservazione beni culturali abbiamo incontrato per caso Erica. Ridendo ci ha raccontato di essere tornata dopo anni sul lago di Zurigo. «Era bello nel Sottoceneri, ma a un certo punto si capisce di nuovo qual è il proprio posto», ha detto con quella calma lieve che molti qui sembrano avere.
Più tardi, alla festa del pane nella Casa Tomé abbiamo rincontrato Erica, immersa in un ambiente che profumava di anice e di fuoco di legna. In quest’atmosfera le persone svolgevano varie attività, come impastare il pane, trasportare ceste e sfornare il pane dal forno. Lì abbiamo parlato con turisti che apprezzavano la tranquillità della valle e con abitanti del posto che utilizzavano la festa come momento d’incontro.
E in mezzo a tutto questo c’era Cassiano Luminati, che ci aveva guidati per Poschiavo come qualcuno che porta in tasca un intreccio di storia, orgoglio e nostalgia. Alla festa del pane non era più il narratore, ma parte integrante dell‘evento. Nelle conversazioni, nelle risate, nel ritmo del paese. Per un attimo sembrava che proprio il pane poschiavino tenesse insieme tutto questo: le persone, le loro storie, il paese.
Abbiamo risalito un tratto del pendio. In una radura nel bosco ci siamo fermati a guardare il paese laggiù in fondo, compatto e tranquillo tra i versanti, con i suoi tetti di pietra. Da lassù abbiamo ripensato a Diego Battilana, il forestale che ci aveva raccontato dei boschi che qui sono ormai più spazi di protezione che foreste produttive. Di nuove specie arboree, del cambiamento climatico, di formulari e burocrazia, del nuovo camion e della speranza di avere una segheria propria in Val Poschiavo. Ci è diventato chiaro che anche i boschi hanno delle storie che si ascoltano solo quando qualcuno le racconta.
L’ultimo giorno della nostra escursione ci trovavamo nella fattoria di Thomas Compagnoni. Le sue parole si distinguevano da gran parte di quanto avevamo udito fino a quel momento. Parlava in modo calmo e chiaro delle sue vacche nutrici, del raccolto di patate, delle piccole quantità vendute, dei ristoranti che talvolta non dichiarano con la dovuta precisione l’origine dei prodotti, dei turisti che amano assaggiare ma comprano poco, dei residenti che vanno a fare la spesa in Italia; del cambiamento climatico, del lupo, dei biker, della burocrazia. Della speranza e della delusione. Nulla era abbellito, nulla elevato. Era semplicemente la realtà quotidiana di un agricoltore che lavora ogni giorno in questo paesaggio, vivendolo e non limitandosi a parlarne.
Più tardi, sul Lago di Poschiavo, ci siamo seduti sulla ghiaia e abbiamo fatto rimbalzare sassi sulla superficie dell’acqua.
Parlavamo di ciò che queste voci ci avevano trasmesso: l’entusiasmo, i dubbi, le storie, i desideri, le contraddizioni.
Alla fine ci siamo resi conto di esserci lasciati influenzare troppo in fretta, dalle visioni affascinanti e dai progetti ben presentati. Ma poi abbiamo ricordato le persone che abbiamo incontrato: le loro parole sincere, la loro stanchezza, il loro fuoco, le loro speranze.
La Valposchiavo non è un luogo che si lascia spiegare in tre giorni. È una valle di voci. Di mani. Di orgoglio e fragilità. Una valle che si mostra e che contraddice.
Forse questa è la risposta più importante: che i valori, le relazioni e le tensioni che cercavamo sono la vera base di ogni sviluppo. La Valposchiavo non vive di concetti, ma di tutti coloro che condividono insieme ciò che è importante per loro. Vive di chi resta, di chi torna, di chi dubita e continua comunque.
E il futuro nasce laddove le persone sono disposte a sostenersi reciprocamente.
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